In genere quando inizio un nuovo quadro mi predispongo per una determinata situazione. A volte dipingo con l’intento di regalare il quadro a qualcuno, e realizzo un soggetto che possa piacere alla persona che lo riceverà; oppure un ritratto, e ovviamente so già che sarà della persona raffigurata. Altre volte dipingo paesaggi o animali ripresi da foto che mi hanno particolarmente colpita; quelli sono quadri che io considero “liberi”, nel senso che a seconda della loro evoluzione potranno prendere strade diverse: se nel realizzarli li sentirò “miei” resteranno con me, se non li sentirò miei e piaceranno così tanto a qualcuno potranno essere venduti, o regalati. Insomma sono gli stati d’animo che determinano il destino di un quadro. Càpita anche spesso che inizi un quadro con l’intento di venderlo, e che questo non piaccia a nessuno e resti a me (più spesso di quanto vorrei… 😉 ). Ma non potrei mai vendere quadri che dipingo per me, perché rappresentano momenti della mia vita, ricordi di luoghi e situazioni vissute e rimasti stampati nella mia seppur flebile memoria. Quindi, per rispondere alla domanda del nostro @Cavaliererrante, che mi chiedeva di mostrare il quadro che sento più “struggentemente mio” rispondo che si tratta del secondo quadro che ho dipinto, raffigura uno scorcio dell’ Île des oiseaux ispirato da una foto fatta sempre da me durante il viaggio di nozze. Il motivo per cui non potrei separarmene è proprio questo.

Tempo fa, con la mia “compagna di banco” a pittura, si ragionava se fosse opportuno o meno dare un titolo ai quadri. Lei sosteneva di no, ritenendo che l’interpretazione di colui che guarda debba essere personale e non debba essere influenzata dal titolo. Io invece sostenevo che l’interpretazione di colui che guarda è importante, ma ancora di più lo è capire quello che il pittore voleva trasmettere, il suo stato d’animo e le sue emozioni (e può anche essere d’aiuto in caso di quadri incomprensibili 😉 )
A me invece è capitato di cambiare completamente stato d’animo rispetto ad un mio quadro, a seguito dell’interpretazione di colui, anzi, colei che lo guardava. Mentre dipingevo questo

ero piuttosto triste, perché il vedere questa macchina non più utile gettata in quel campo mi incupiva, quasi fosse la similitudine degli anni a venire, con la prospettiva della vecchiaia, degli acciacchi, della solitudine. E mentre le esponevo questo stato d’animo lei mi guardò e se ne uscì dicendo: “Ma che cacchio dici? Ma non lo vedi che grinta che ha ancora quella macchina?!” Ed ecco che all’improvviso quella che fino a poco prima vedevo come una povera macchina abbandonata adesso mi sembrò di nuovo gagliarda, quasi potesse di nuovo far sentire il rombo del motore. La guardai con occhi nuovi, e vidi la forza e la determinatezza di chi ha lottato e di chi ancora non si rassegna e vuole vendere cara la pelle (inutile dire che anche questo resta a me 😉 )
p.s. In ogni caso, qualsiasi quadro è un po’ come un figlio, dispiace sempre quando se ne vanno…