La prima cosa che vidi appena riaprii gli occhi fu la donna che era lì vicino a me. Era vestita di bianco ed aveva i capelli raccolti in uno chignon. Un dolore lancinante al polso sinistro mi riportò alla realtà. Si, ero sicuramente in un letto d’ospedale, e la donna mi stava ricucendo una ferita, dalla quale si potevano intravedere i tendini.
– Che cosa è successo? – Mi chiese.
Feci uno sforzo per riuscire a ricordare i particolari, dapprima era tutto confuso, ma piano piano i dettagli cominciarono a riaffiorare. Si, adesso ricordavo. Era successo tutto all’improvviso. Eravamo lì per proteggere una famiglia…
Avevamo adibito a “base” una stanza nel seminterrato della casa. Dopo cena ero scesa giù per il rapporto ed avevo visto il nostro comandante che guardava alcune medaglie. Le lacrime mi erano salite agli occhi.
-Qual’è quella di mio padre? –avevo chiesto- E’ una medaglia di seconda classe, alla memoria. Come se l’è guadagnata?
Lui aveva abbassato lo sguardo serrando i denti, ed io capii che non avrei ricevuto risposta. Con un nodo alla gola ero risalita su per le scale. A metà del pianerottolo una cesta in vimini accoglieva la cagna di proprietà della famiglia. Era una bella femmina marrone, grande e docile. Stava per partorire. Mi fermai ad accarezzarla mentre a stento cercavo di soffocare i singhiozzi. Lei mi guardò con una tenerezza ed una gratitudine infinite, con quello sguardo amorevole che solo i cani sanno fare. In quello stesso momento un rumore al piano di sopra mi fece trasalire. Mi asciugai in fretta le lacrime col polsino della manica, impugnai la pistola e salii guardinga le scale. La porta finestra era aperta, la casa tutta buia e silenziosa, adesso. Ispezionai il pianterreno e mentre stavo per salire a controllare la famiglia, dalla finestra scorsi una figura vestita di nero che si stava dirigendo di corsa verso un suv bianco parcheggiato lì vicino. Dalla macchina dei colpi di pistola partirono verso di me. Risposi al fuoco. Il mio collega accorse in mio aiuto ed entrambi ci mettemmo a correre. Scaricammo le pistole contro l’auto, ma evidentemente i colpi non andarono a segno, dal momento che l’auto cominciò ad inseguirci. Il nostro mezzo era dal lato opposto della casa, non saremmo riusciti ad arrivarci. Ci guardammo ed iniziammo a correre verso una casa vicina, salimmo di corsa tutte le scale, ma i tipi là non si davano per vinti. Ci seguirono sempre sparandoci contro, per fortuna anche la loro mira lasciava un po’ a desiderare. Riuscimmo ad arrivare quasi ai tetti. Scavalcammo una finestra e ci attaccammo penzoloni ad una scala orizzontale, che ci avrebbe permesso di arrivare alla casa opposta. Era la nostra salvezza. Tutte quelle ore di addestramento stavano dando i loro frutti…AH! Che cos’era? Malediz…! Un ferro sporgente mi aveva ferito al polso sinistro, una ferita profonda, il sangue scorreva veloce lungo il braccio, e, gocciolando dal gomito, cadeva su un tettino di lamiera alcuni metri più in basso. Con quella ferita non ce la facevo ad andare avanti aggrappata con una sola mano….Guardai il mio collega, saltare giù sarebbe stata l’unica soluzione…forse il fragore della nostra caduta sul tetto avrebbe richiamato l’attenzione dei vicini, ed i nostri inseguitori avrebbero desistito dal cercare di raggiungerci.
Così facemmo…e poi, il buio…
Ah! Maledettta infermiera, ma almeno potrebbe usare un po’ di anestetico?!
– Ecco fatto – disse, e si allontanò.
Solo allora notai il mio collega, seduto su una sedia ai piedi del mio letto.
– Ora che si fa? – Gli chiesi.
-Si torna a casa.